Emòr

Nella Parashà di questa settimana, Emòr, troviamo nella parte centrale, dedicata alle ricorrenze del calendario ebraico, il precetto del conteggio dell’Omer, che stiamo contando proprio in queste settimane. Sono numerose le regole relative a questo conteggio, ma ne troviamo in particolare una che sembra piuttosto strana: se si dimentica di contare un giorno (ossia il conteggio non viene operato nell’arco delle 24 ore), non si potrà proseguire la Benedizione. Questa regola è quantomeno originale; non c’è infatti nulla di simile in nessun altro precetto. Se per esempio non si riescono a mettere i Tefillin un giorno o non si riesce ad accendere uno dei lumi di Chanukkà, la Mitzvà andrà comunque eseguita nei giorni successi e recitando la apposita Berachà! Perché l’Omer ha questa particolarità? Per quale ragione il mancato conteggio di anche uno solo dei giorni ci impedisce di recitare le Berachà in tutti i giorni successivi?
Il periodo in cui ci troviamo, quello appunto dell’Omer è particolarmente legato a Rabbi Akivà: si narra che egli in gioventù fosse un ignorante. Una volta, dice il midrash, notò che delle gocce d’acqua, cadendo ripetutamente, avevano perforato una roccia. Osservando il fenomeno, si disse: se l’acqua può bucare la roccia, tanto più la Torà, che è paragonata all’acqua, potrà penetrare nel mio cuore! Iniziò così a studiare, iniziando da zero, fino a diventare uno dei più grandi Maestri di tutti i tempi.  Quando si vuole fare bollire dell’acqua la si lascia sul fornello finché non bolle. A nessuno verrebbe in mente di lasciarla sul fuoco un minuto, toglierla per qualche tempo e poi rimetterla un altro minuto sperando che arrivi a ebollizione! Quello che è determinante non è infatti quanto tempo l’acqua rimane sul fuoco, ma la continuità del calore generato che consente di portarla ad ebollizione. Una singola goccia non riesce a scalfire la roccia, ma il costante ed incessante cadere di una goccia dopo l’altra ha un effetto sorprendente. In questi giorni in cui ci avviciniamo a Shavuòt, la festa che ci rinnova il dono della Torà,  la storia di Rabbì Akivà ci insegna che non è importante quando si inizia a studiare e quanto si studia la Torà, ma ciò che conta è la perseveranza e la continuità con cui affrontiamo lo studio. In questo modo la Torà riuscirà a penetrare stabilmente nei nostri cuori.