Behaalotechà

“E parlò il Signore a Moshè dicendo: ‘Questo è quanto per i Leviti: dai venticinque anni in su
verrà a far parte dell’esercito nel servizio della Tenda della Radunanza’”. (Numeri VIII, 23-24)
Nella Parashà di questa settimana la Torà affronta numerosi argomenti legati al culto del
Santuario inquadrati nella ‘rivoluzione’ epocale che fa da trama al libro di Bemidbar. Tra di essi
spicca la definitiva consacrazione dei Leviti che sostituiscono i primogeniti.
Il ruolo dei Leviti, spesso schiacciato tra quello dei Coanim e quello dei semplici ebrei, è in
realtà fondamentale. Israele non è completo ed il suo servizio non può funzionare senza Coanim,
Leviim ed Israelim. Rashì nel suo commento in loco (citando il Sifri e TB Chulin 24a) sottolinea
una delle peculiarità dei Leviim: il rapporto con il tempo. Come per i Sacerdoti è applicabile
infatti ai Leviti il concetto di pasul, di non valido per la partecipazione al culto. Per i Sacerdoti le
imperfezioni che limitano la partecipazione al culto sono fisiche: il Coen deve essere fisicamente
perfetto. I mumin, le imperfezioni fisiche, non squalificano però i Leviti, i quali invece hanno
come discriminante l’età. Dal nostro verso e da quelli successivi si impara infatti che il Levita
può servire nel Santuario per il periodo compreso tra i venticinque ed i cinquanta anni di età.
Rashì sottolinea poi che precedentemente la Torà aveva indicato il periodo dai trenta ai cinquanta
e spiega che i primi cinque anni sono di apprendistato. Dunque, il sevizio dei leviti è strettamente
legato al tempo.

Lo Sfat Emet spiega in proposito che le tre dimensioni che descrivono il nostro mondo, spazio,
tempo ed anime (l’AShaN), sono assegnate ai tre gruppi d’Israele perché questi le ‘aggiustino’. I
semplici ebrei (Israelim) sono preposti alla dimensione dello spazio per mezzo della forza di
Erez Israel. Per questo Erez Israel viene divisa tra le tribù ma non viene assegnata parte alcuna
alla Tribù di Levi. I Coanim sono preposti alla dimensione delle anime, delle persone. Essi
eseguono il tikun sulla persona umana. Il Sommo Sacerdote è l’uomo per eccellenza. Per questo
non deve avere imperfezioni. I Leviti sono invece preposti alla dimensione del tempo e per
questo è solo il tempo che li può squalificare.

Lo Sfat Emet lega questo ad uno degli elementi chiave del culto dei leviti, il canto. Tre infatti
sono i compiti principali dei Leviti: il trasporto delle componenti del Mishkan, il canto che
accompagna i korbanot e la guardia del Santuario. Il canto dei leviti è per il Rabbi di Gur
intrinsecamente temporale: esso cambia con l’avvicendarsi dei giorni. Ogni giorno infatti i Leviti
recitavano un Salmo diverso così come ricordiamo nelle nostre preghiere. L’Arìza’l ricorda che
la caratteristica del tempo è proprio quella della dinamicità: da che è stato creato il mondo, non

c’è un giorno uguale all’altro, ogni momento è unico. Il compito dei leviti è allora proprio quello
di sacralizzare il tempo e di legarlo attraverso il canto alla sua radice superiore.
In qualche modo potremmo dire che l’elemento canoro dei leviti è l’intersezione che c’è tra il
culto sacerdotale ed il mondo della preghiera. È forse quindi l’unico elemento del Santuario che
è sopravvissuto fino ai giorni nostri: il canto. Non è certo un caso se il nostro rito italiano, così
attento alla bellezza del canto, ha altresì sottolineato l’importanza del salmo del giorno.
Il Midrash vuole che l’arpa a sette corde che accompagnava il canto dei leviti avrà nei giorni
messianici otto corde, e nel mondo futuro dieci. Lo Sfat Emet commenta che la dinamicità del
tempo riceverà una spinta qualitativa in futuro modificando la sua ‘base’.
Il canto dei Leviti è nell’immaginario rabbinico la voce di Jacov. L’anima stessa del popolo
ebraico. I nostri Maestri testimoniano che quando esisteva il Santuario il canto poteva essere
udito sino a Gerico. Per lo Sfat Emet, Gerico, la prima tappa della conquista di Erez Israel, è la
radice stessa della forza delle sette nazioni cananee. Il canto dei leviti giunge sino a Gerico per
ricordare che il nostro modo di contrapporci ai nostri nemici è nel canto. Nella voce di Jacov che
sovrasta la mani di Esav. La voce dei leviti incute terrore ai nostri nemici che devono accettare il
ruolo d’Israele “ed ogni guerra dei figli d’Israele è per mezzo di questa forza”, dice il Rabbi di
Gur citando il verso dei Salmi “le cose eccelse di D. nella loro gola, ed una spada a doppio filo
nella loro mano”.
Se il canto è quindi paragonato alla spada, all’attacco, l’altro elemento chiave del servizio levita
è la difesa, la guardia del Santuario. La prima Mishnà del trattato di Middot elenca le
ventiquattro stazioni sorvegliate del Santuario. I Coanim (come parte integrante della tribù di
Levi) nelle tre interne, ed i Leviti nelle ventuno esterne. (Nella derashà di Korach del 5763
abbiamo approfondito il precetto della guardia del Santuario).
Tale guardia non ha nulla a che vedere con una misura di sicurezza fisica:
“La guardia del Santuario è un precetto positivo, anche se non c’è timore di nemici né di ladri,
dato che la sua guardia non è altro che per il suo onore dato che non è simile un palazzo che ha
una guardia ad un palazzo che non ha una guardia.” (Rambam Hil. Bet HaBechirà VIII,1).

Lo Sfat Emet commenta:
“In ogni luogo nel quale c’è la rivelazione dell’interiorità c’è necessità di custodia (shmirà),
come zakor (ricorda) e shamor (osserva) dello Shabbat poiché in esso si apre la porta interiore.
E così anche la milà per la persona. E così nel Santuario c’è il ricordo e la custodia. Il ricordo è
nella bocca ed è il canto la custodia. E così anche in ogni uomo d’Israele nel quale c’è
l’illuminazione dell’anima interiore serve ricordo e custodia attraverso i precetti positivi ed i
precetti negativi. Ed è tutto come per Adam HaRishon nel giardino dell’Eden, che è la porta
interiore, del quale è scritto ‘per lavorarlo e custodirlo’. Ed è tutta una sola questione.”
Anche questa custodia è legata al concetto di tempo: secondo alcuni infatti il precetto è solo per
la notte ed è legato alla apertura e chiusura delle porte.
Paradossalmente però non è al canto né alla custodia del Santuario che si riferisce il limite d’età
dei leviti. Rashì (citando il Sifrì) spiega il termine “e non lavorerà più” che indica il
pensionamento a cinquant’anni dei leviti come da riferirsi al solo trasporto a spalla del Santuario.
‘ma torna per la chiusura delle porte, per il canto e per caricare i carri’.

Lo Sfat Emet propone una riflessione del nonno, il Chidusè HaRim. Rashì parla della neilat
shearim, il momento topico della chiusura delle porte del Santuario. Il momento nel quale
quotidianamente si pregava nel Santuario la Neilà, che noi abbiamo solo nel giorno di Kippur.
Avrebbe potuto parlare anche dell’apertura delle porte. Perché il levita pensionato torna alla
chiusura delle porte?
Il Chidushè HaRim lo spiega con un famoso verso del Cantico dei Cantici (VII, 2) che descrive
Israele che si reca al Santuario. “Come sono belli i tuoi passi nei sandali (peamaich banealim),
figlia di un nobile!”
I passi, peamaich, hanno la stessa radice di paamon, il campanello d’oro del vestito del Sommo
Sacerdote. I passi sono il risveglio dell’esaltazione dei figli d’Israele. Sono la forza motrice
dell’anima ebraica, il campanello d’oro che suona il canto d’Israele quando il Coen Gadol
cammina. Il naal è la calzatura, la protezione, il contenimento. Il culto d’Israele deve sempre
essere in equilibrio tra la forza dirompente dei passi in avanti ed il contenimento della calzatura
che impedisce alla forza motrice di espandersi oltre misura.
I passi nei sandali sono due momenti della vita del levita, ma forse di ogni ebreo. L’esaltazione e
la spinta motrice è propria della gioventù, laddove la maturità, la ziknà, la vecchiaia (se di
vecchiaia si può parlare a cinquanta anni) è proprio nello yshuv daat, nella tranquillità dello
spirito, nella capacità di porre limiti all’esaltazione, a mantenere nei corretti binari la forza
motrice dei giovani. Per questo spiega lo Sfat Emet che i leviti ultracinquantenni tornano alla
neilat sharim, tornano alla chiusura delle porte che viene dalla stessa radice di minal, di
calzatura. A cinquanta anni il levita è pronto per il suo nuovo ruolo di contenimento. Ma il Rabbi
di Gur va oltre e dice che il vero zaken (vecchio nel senso di saggio) è colui che da giovane è
stato esaltato nella maniera corretta. La Torà non fa l’elogio dell’essere miti. I giovani devono
essere infiammati di spirito combattivo, devono esaltarsi nel servizio del Signore. Ed è proprio
quando lo fanno in modo corretto che poi, una volta maturati, possono aggiustare il tiro e
divenire zkenim protettori. Protettori delle nuove generazioni sì, ma anche e sopratutto protettori
a posteriori della loro stessa giovinezza.
Il compito dei leviti è allora quello di ricordarci che Israele è perennemente in movimento. Che
essi cantino, montino guardia o trasportino a spalla l’Arca, che siano giovani o vecchi, essi ci
ricordano che Israele non si ferma mai. Che il tempo è dinamico e così deve essere il nostro culto
del Signore.
Nella nostra Parashà, è noto, compare il sesto libro della Torà: poche parole racchiuse in due nun
rovesciate (Numeri, 10; 35-36). Quasi una parentesi, una sottolineatura. ‘Vaì binsoa haAron’ – E
fu nel partire dell’Arca. Altre culture hanno al loro epicentro oggetti o immagini statiche. Israele
non ha immagini ma un Arca contenete il sapere, la Torà, che è perennemente in movimento.
Anche nel Santissimo di Gerusalemme dopo centinaia di anni da quando era stata portata a spalla
per l’ultima volta, anche in questo momento, in qualsiasi luogo sia stata nascosta, l’Arca è pronta
ad essere trasportata. Ha le sue stanghe infilate negli anelli, che non possono mai essere rimosse.
La Torà è sempre in movimento, cammina con noi, ed anzi ci fa camminare.
È la grande lezione che ci insegna ogni figlio di Levì, come Moshè nostro Maestro.