Pekudè

La Parashà di Pekudè conclude il libro di Shemot e ci presenta un resoconto di Moshè sulla costruzione del Mishkàn; vengono elencate le quantità totali di oro, argento e rame impiegate ed altri conteggi sui materiali impiegati.  I Maestri si chiedono il perché di questo resoconto, che – oltretutto – viene dopo una minuziosa descrizione del lavoro svolto e dei materiali utilizzati. Una delle risposte che vengono date è che bisogna rendere conto sia a Dio sia agli uomini. È scritto che bisogna essere puliti e innocenti davanti a Dio e davanti a Israele. Eppure, dovrebbe essere sufficiente esserlo davanti a Dio e alla propria coscienza, in modo da risultare puliti anche di fronte al prossimo. Ma non è così secondo la tradizione ebraica. Anche quando agiamo in assoluta buona fede non possiamo dirci completamente obiettivi. I Maestri dicono che l’uomo è sempre vicino a sé stesso e che questa vicinanza può distorcere la sua visione della realtà. Tuttavia, anche la visione degli altri può essere distorta e poco obiettiva quando ad esempio è frutto di preconcetti o addirittura malevola. Nonostante ciò, non possiamo estraniarci da tutto e tutti e non tenere conto delle opinioni degli altri. Uno degli insegnamenti più importanti che possiamo trarre è quello di imparare ad ascoltare ed eventualmente accettare le critiche. Moshè sapeva perfettamente che ognuno aveva svolto con precisione ed onestà il suo lavoro e che il Mishkàn era stato realizzato secondo la volontà del Signore. Ma non rendere conto a nessuno, poteva lasciare adito a sospetto o malignità che Moshè voleva fugare. La trasparenza e l’assoluta onestà di Moshè non si manifestava dunque solamente verso Dio, ma anche e soprattutto vero gli altri.